Il secolo di chi osa (integrale)

Come se il tempo si fosse fatto breve, il secolo che stiamo vivendo sarà il secolo caratterizzato dal fatto di osare, di chi osa.
Il rischio da Elon Musk a Volodymyr Zelens’kyj, dalle ragazze iraniane, attraverso i migranti a una giovane generazione italiana che muove i primi passi nella società tra bene e male, tra baby gang e storie di sacrificio e volontariato, molto oltre la narrazione sui bamboccioni o su un uso sbagliato del reddito di cittadinanza: la capacità di rischio definisce l’epoca.
Questa generazione non è – direbbe, credo, Pasolini – figlia di papà perché i papà hanno conosciuto la forza determinante e deprimente della crisi economica. Per questi giovani si sa che la vita ti può ridurre in qualsiasi momento ad uno stato di sopravvivenza. Lo sanno bene i giovani delle periferie ma lo sanno forse altrettanto bene, dietro camicia e pullover, i talenti rubati al sud da una Milano che dà loro un misero stipendio e se lo ringoia tra affitto e servizi.
No, stare al mondo non si fa sul divano. Mentalmente innanzitutto, intendo. Stare al mondo oggi inizia stando allerta.
Ma non è un’epoca da duri. L’immagine dei film anni ‘50/’60, all’americana, che in Italia furono quelli del miracolo economico. Il ‘duro’ normalmente fa affidamento sulle forze. Che sono le sue. Noi siamo in un’epoca di gente che si sente povera e debole. Però rischia. E in tal senso ha un potere. Che però non è nemmeno il potere di un supereroe. E’ il potere che può essere di un popolo. Quello di crederci. E’ l’epoca di chi rischia la sua piccola idea, la sua debole consapevolezza, i suoi teneri affetti, le sue storiche amicizie, i suoi soliti errori. Ma osa. E in tal senso sposa il futuro. Non il futuro del suo sogno, non il suo futuro. Certo indirizzandolo a quelli. Ma sposa e osa il futuro imprevedibile, il futuro diverso, il futuro che sarà realmente e dentro cui si giocherà come verifica l’ipotesi del sogno e dell’idea.
Osare è prima che un calcolo un sentimento. In tal senso ha ragione Oscar Farinetti a dire che il nostro mondo ha bisogno soprattutto dei nostri sentimenti. Intendendo per sentimento un atteggiamento nei confronti della vita. Di tutte le soft skills, di tutte le character skills la più importante – che però non si impara – ma si assume come un cibo rubato e consumato frugalmente in assenza di quello materno è la capacità di rischio.
Non bisogna schiacciare l’idea di rischio sulle imprese di natura economico imprenditoriale. Certo anche. Ma un prete che magari decide di andare a lavorare nelle carceri osa e molto, solo per fare un esempio.
Wystan Hugh Auden, poeta britannico, parlò del secondo dopoguerra come di una ‘età dell’ansia’. Si capisce bene dopo la tragica e sanguinosa dilacerazione che aveva subito l’Europa e non solo.
Oggi noi a causa della crisi economica, della pandemia, della nuova guerra nel cuore dell’Europa, attraversiamo una fase di grande incertezza. E ciò di cui sto parlando, identificando un’età di chi osa, sono proprio gli anticorpi che si sono creati a questa situazione.
Ma non si fraintenda. La peculiarità di quest’epoca non sta negli sconvolgimenti geopolitici, migratori, pandemici, economici. La peculiarità di quest’epoca rispetto al primo novecento (periodo di grandi migrazioni anche dall’Italia) rispetto al secondo dopoguerra, o età dell’ansia, rispetto al trentennio neoliberista del consumismo sfrenato che si conclude idealmente con la crisi economica del 2008, il proprium della nostra epoca sta in qualcosa di spirituale, in un atteggiamento spirituale, in cui semmai lo stratificarsi di tutti gli avvenimenti sociali summenzionati provoca la percezione emotiva che il tempo si sia fatto breve. E così la disponibilità più aperta a rischiare qualcosa se non tutto di sé.
Per rischiare prima del coraggio occorre un’intuizione.
L’intuizione non è una stravaganza della mente. Ma più o meno latamente consiste del significato profondissimo ed espresso in maniera insuperabile da Dante nel paradiso: “S’io mi intuassi come tu ti immii” (Cfr. Paradiso IX,81).
Ogni intuizione, come ogni conoscenza che determina l’idea per la quale si rischia non nasce da un iperuranio platonico. Molto spesso una sana induzione dalla pratica, dalla concretezza dell’esperienza può avvicinare attraverso l’elaborazione creativa all’identificazione dello scopo.
Ma l’esperienza ci dice che né induzione né deduzione sono sufficienti.
Occorre quella che Aristotele chiamava meraviglia perché l’uomo si inoltri nella conoscenza vera, in una nuova conoscenza, che possa trascinare con sé il sentimento e l’azione.
E’ la conoscenza amorosa o – utilizzando un sintagma più alla moda – è l’intelligenza emotiva.
All’origine c’è l’incontro tra il nostro protenderci in uno sforzo immaginativo (intuarsi) e l’attimo (attimo fuggente?) di una rivelazione che ha sempre i connotati di qualcosa di imprevisto e assolutamente non conosciuto.
Normalmente, anche se in una sorta di trasfigurazione che solo la passione dei nostri giovani imprenditori e in generale il genio del made in Italy conosce, questo incontro tra l’io che ricerca e il tu della realtà – vissuta come alterità che sorprende – rivela un aspetto nuovo del proprio lavoro, del proprio compito, della propria missione. In certo senso una dimensione nuova. Passi e metodi nuovi, che ridefiniscono la meta.
Osare non è un’azione solipsistica. Non è ‘Memento audere semper’.
In realtà non conosco esempio migliore della capacità di osare di chi ha ricostruito la civiltà nell’alto medioevo fondandola sulla regola ‘ora et labora’. ‘Era necessario che l’eroico diventasse normale, quotidiano, e che il normale, quotidiano diventasse eroico’ ebbe a dire parlando di San Benedetto papa Wojtyla.
In un certo senso l’intuizione ti attacca alla meta e ti ci attacca per tutta la vita. Il punto è che l’obiezione che non si fa alla meta non la si faccia poi alla strada nei momenti in cui diventa  accidentata o perché dall’inizio ti pare troppo difficile.
Un altro poeta polacco, Cyprian Norwid scrisse ‘la bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere’.
Come è risorta sull’esempio di San Benedetto da Norcia l’Europa!
Che senso aveva fare un abbazia in mezzo alle paludi piene di animali feroci ed esposte alle razzie? Eppure attorno ad esse e ai primi monaci cominciarono a radunarsi persone e gruppi per poter essere protetti e lavorare.
Occorrono tre cose per osare:
– L’intuizione;
– i legami;
– l’offerta della propria vita proporzionata al raggiungimento della meta. Che spesso si prende più di quanto avessimo pianificato. Forse nel nuovo tempo, per osare, occorre proprio un’ultima disponibilità bambina (oserei dire) a questa ‘svista’ (Adrienne Von Speyr).

Ravenna, 2-01-’23